Odio - Eduardo J. Carletti


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Tradudido al italiano por Claudio Tinivella.

È una scena oscura. Anche la musica che accompagna le immagini lo è: suona un organo da chiesa, immenso, profondo, con note basse e sostenute. Non ci sono altri strumenti. Il vecchio entra nel suo ufficio lussuoso, si precipita sul sedile anatomico, ordina un piccolo lunch e si china con avidità sul rapporto. Il rapporto gli dice quello che supponeva: le copie sono arrivate all’età matura, hanno già impiantato in loro le memorie corrispettive e adesso aspettano la sua visita. Dopo avere mangiato senza troppa voglia, scende al quindicesimo piano sotterraneo del palazzo della sua azienda.

I cloni sono nudi, tremanti dal freddo, legati alle loro sedie. Sono sani e forti, tali e quali se li è sempre figurati. Un uomo e una donna comuni, lei bionda, lui castano scuro, in parte belli, con quelle due facce che non ha mai conosciuto, quelle facce che nascondono dentro a loro le copie di quei cervelli che devono aver pianificato insieme, molti anni prima, l’abbandono di un bimbo appena nato.

Il vecchio li osserva in silenzio, chiude gli occhi per un instante, sente un grosso dolore che sale dal suo ventre. Quegli individui che non conosce fecero le due cose più importanti e più rilevanti della sua esistenza: donargli la vita e dargli, altresì, la motivazione che lo ha portato dalla triste posizione di anonimo bambino internato in un asilo di orfani a padrone di una delle maggiori aziende del mondo. A parte quello, non può provare nulla per loro: né amarli né odiarli. Vorrebbe farlo ma, purtroppo, non riesce ad applicare l’immagine dell’odio a quei due esseri pallidi e tremanti. Non può immaginarli più che come quel che sono, come una reincarnazione tecnobiologica sulla quale rovesciare, artificialmente, la sua rivincita tanto desiderata. Per la parte più profonda e viscerale del suo stanco cervello i suoi genitori continuano a essere, in realtà, quei resti secchi e fragili che ha fatto esumare da un cimitero dopo decenni di ricerche. È una questione di puro istinto, e non può intellettualizzarlo. Non ha importanza che da quei resti siano stati estratti i dati per la ricostruzione, per la copia. I suoi genitori sono quello: polvere e ossa, ma non due tremanti, giovani e pallidi corpi nudi legati ad una sedia.

Apre gli occhi, con i pugni stretti. Il suono dell’organo si abbassa ulteriormente; fa tremare le pareti. I cloni cercano di sorridere, forzatamente, credendo forse che in quel modo riusciranno a cambiare un destino che già conoscono, che capiscono molto bene, dato che una parte della cerimonia ripetuta per la centesima volta consiste nello spiegare loro ciò che succederà. Il vecchio si siede, li guarda senza dire nulla, senza far caso ai gesti che gli fanno o a quelli che non gli fanno, per ore. Poi osserva per un instante l’opaco uomo di vigilanza, gli dà il triste ordine e si ritira. L’organo indugia su una nota bassa, lugubre, che si prolunga interminabilmente, mentre cala di volume fino a perdersi. Suonano alcuni timpani amorfi, smorzati. Il vecchio si allontana vacillando. Non ha trovato la forza di sfogare la sua sete di vendetta. Lo sa bene, se lo ripete più volte all’interno della sua mente torturata. Una volta di più non ha avuto la forza di ucciderli, di ucciderli con le sue proprie mani, per vendicarsi una buona volta e terminare quella sudicia commedia. Senza dubbio crede, deve credere, si impone di credere che non può vacillare, che non può abbandonare i comportamenti rigorosi di una guerra interiore che dura da più di settanta anni, che non deve perdere, in nessun modo, le speranze.

Prima di andarsene dal suo grigio ufficio, legge lentamente, con un gesto di amarezza che potrebbe sembrare un sorriso, il rapporto sullo sviluppo dei cloni della generazione successiva.

Eduardo J. Carletti

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